Io è un altro: Arthur RimbaudSaggio critico sul concetto del “diverso dentro sé” attraverso la poesia dell’ignoto

Io è un altro: Arthur RimbaudSaggio critico sul concetto del “diverso dentro sé” attraverso la poesia dell’ignoto

a cura di Amelia Di Risio

“Ad ogni essere mi sembravano dovute parecchie altre vite […]
Davanti a molti uomini, conversai ad alta voce

con un momento di un’altra delle loro vite”.
Arthur Rimbaud

Esistono stelle chiamate Gravastar, in esse avviene una trasformazione conseguente ad un collasso gravitazionale: divengono bolle di vuoto cariche di energia oscura la quale, crea una forza repulsiva massima; gli astrofisici ritengono le Gravastar forme di equilibrio dinamico, in cui il rapporto tra spazio – tempo si troverebbe in condizioni estreme.[1]

Arthur Rimbaud non è stato semplicemente un poeta, un adolescente ribelle, un pazzo, un genio e quanto altro, come una Gravastar, è stato un uomo dall’energia oscura, ha estremizzato la sua vita e contratto lo spazio e il tempo per divenire “poeta veggente”, per trasformarsi in “io è un altro”. Per essere diverso.

Quando ci addentriamo in un concetto sibillino come la diversità, ci viene in mente qualcosa di riconoscibile, tangibile, una dissomiglianza fisica, la quale si palesa molto spesso attraverso la disabilità, le espressioni sociali, le preferenze sessuali, la patologia, il colore e i tratti somatici. Da un macrocosmo multiforme, si può giungere facilmente ad un microcosmo fittissimo di diversificazioni.

In questa sede vorrei esprimermi su una diversità che non tutti identificano e che pure esiste, che governa il valore di senso che diamo a noi stessi e alla nostra vita senza accorgercene, una diversità che nel caso di un poeta “denso” come Rimbaud, ha oltrepassato i limiti del conoscibile e si è immersa nelle ebbrezze, nell’inconscio, nella “sregolatezza di tutti i sensi”.

Mi riferisco alla diversità nascosta a cui nessuno ha accesso razionalmente e a chi tenta di avvicinarla, è riservata la perdizione, figlia delle nostre pulsioni primitive e di cui sappiamo ben poco.

A quanti di voi è capitato di scrutarsi allo specchio e di percepire una sorta di presenza al di là di quegli occhi noti, un altro per l’appunto, giacente oltre ciò che definiamo “me stesso”?

Ad aggiungersi a quesiti di non semplice risposta, resta ricca di significato l’insoddisfazione che sovente si nutre di ciò che diveniamo nel tempo, il mancato gradimento dell’ individuo – persona nella fattispecie. L’immagine che abbiamo di noi stessi quasi mai ci gratifica o si avvicina a ciò che vorremmo essere; indagare e alimentare un’altra identità, definire una sorta di straniero all’interno della nostra humanitas sembra allora una scelta riuscita, perché la vita appaia ammissibile e persino avventurosa. Per molti a questo “diverso” viene data la definizione di “personaggio”, io preferirei elevare tale concetto all’identificazione di Poeta.

Il potenziale dello straniero all’interno di sé,  Rimbaud l’aveva avvertito, padroneggiato, sbandierato attraverso un espediente definito da molti critici geniale e assolutamente innovativo, considerando l’età in cui egli scrisse: l’ideazione del poeta come veggente, la ricerca all’interno di sé, di un “altro” da sé, l’uomo che diviene sovrumano grazie ad una ripetuta e minuziosa decostruzione delle consuetudini sociali e individuali, colui che contempla tutte le forme d’amore, di squilibrio, del male per arrivare a se stesso, all’ignoto della sua anima e possederla…o quantomeno vederla.

Nelle lettere che scrisse prima al professore Izambard il 13 maggio 1871 e successivamente a Paul Demeny il 15 maggio, si legge: <> [4]

L’ alterazione che ne consegue, accompagna il poeta all’ “altro”, l’esternazione dell’identità che pulsa all’interno, guida Rimbaud nelle valutazioni poetiche e nei numerosi viaggi di cui si nutrirà instancabilmente durante tutto l’arco della sua giovane vita.

Il cambiamento avrà ripercussioni profonde in quanto la sua è : < Come un’ombra “l’altro” tallona l’intera esistenza di Arthur. Si prolunga oltre la sua scomparsa. […] Sfugge, semina dubbi su di sé e ipotesi sull’”altro” in cui potrebbe essersi rintanato, felice che le sue orme portino lontano, si disperdano sulla sabbia o sulla neve>>.[5]

Con Arthur Rimbaud bisogna stare attenti a palesare giudizi critici sulle sue opere, la dualità insita nella sua natura umana e conseguentemente nelle sue poesie, ci confonde sovente e obbliga a percorrere tutte i tragitti possibili di esegesi. Forse rileggere le sue dirette parole, come sunto di una testimonianza esistenziale unica, ci aiuterebbe quantomeno a percepire il suo mistero e il suo genio precoce.

Mi permetto di concludere con una considerazione intimamente personale e non me ne vogliate, cari lettori, glielo devo. Quando per la prima volta “incontrai” Rimbaud, avevo pressappoco l’età in cui il poeta era nel pieno della violenza creativa e nell’esplicazione del suo talento; ero un’adolescente vestita di feroce individualismo e avida di vita. Una vita che desideravo infiammare e nutrire con la poesia, la musica e il viaggio inteso come “trasporto” mistico oltre che spostamento fisico.  Ricordo il viaggio a Charleville per vedere i suoi luoghi e dare omaggio alla sua tomba, ebbi la sensazione che lui fosse lì e in altri mille luoghi e che, come aveva scritto “la vera vita è assente”.

I suoi versi in quel periodo mi commossero e mi ferirono, mi  imposero lunghe meditazioni e amare considerazioni e ancora oggi, dopo il sorgere di molte “albe strazianti” e dopo aver varcato il confine tra me e un’altra, dico grazie ad Arthur Rimbaud, per essere stato un poeta di pregnanza inesauribile, un fratello, un amante intellettualmente languido, quell’energia oscura di cui parlavo all’inizio che turba quando si avvicina e di cui non ci si dimentica mai.

 

“In un granaio in cui fui rinchiuso a dodici anni,
ho conosciuto il mondo, ho illustrato la commedia umana.
In una cantina ho imparato la storia.
A qualche festa notturna in una città del Nord,
ho incontrato tutte le donne degli antichi poeti. […]
In una magnifica dimora circondata dall’Oriente intero
Ho compiuto la mia opera immensa
E trascorso il mio illustre ritiro.”[6]


[2] Arthur Rimbaud, Lettera del Veggente, Opere, Einaudi Tascabili, 1998

[3] Arthur Rimbaud, Lettera del Veggente, Opere, Einaudi Tascabili, 1998

[4] M. Colesanti,  La letteratura francese dal Romanticismo al Simbolismo, Einaudi

[5] Renato Minore, Rimbaud, Oscar Saggi Mondadori, 1996

[6] Arthur Rimbaud, Vite, Illuminazioni, traduzione di L. Mazza, Newton Compton Editori, VII ed. 1982

angelopieroni

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